Camilla Manfredi, Avvocato – Rödl & Partner, Milano

L’evoluzione della tecnologia è foriera di grandi progressi ma, inevitabilmente, reca con sé anche nuove forme di illecito. Anche la contraffazione dei titoli di proprietà industriale avviene ormai spesso attraverso la rete.

Con particolare riferimento ai segni distintivi, oltre al noto fenomeno del domain grabbing (registrazione in malafede di un dominio corrispondente al marchio altrui), particolare importanza e risonanza ha avuto l’illecita utilizzazione di segni distintivi di terzi come parole chiave (keywords) ai fini del cosiddetto keyword advertising.

Le keywords sono, per l’appunto, parole chiave che vengono utilizzate dai titolari dei siti internet al fine di far apparire i link ai propri siti quando viene effettuata una ricerca on-line. I motori di ricerca hanno, da tempo, iniziato a vendere spazi pubblicitari correlati a determinate parole chiave.

Per fare l’esempio più noto, il servizio di posizionamento Adwords di Google fa apparire, a margine dei risultati “naturali” della ricerca, alcuni link sponsorizzati, ovvero i link di quegli operatori che hanno inserito una determinata parola chiave, corrispondente alla parola cercata dall’utente, nelle proprie inserzioni. L’inserzionista, a fronte del servizio di posizionamento, versa poi a Google una determinata somma per ogni click ricevuto dal proprio link sponsorizzato (cd. pay per click).

Ebbene, il titolare di un’attività commerciale che, per richiamare l’attenzione degli utenti sui propri prodotti o servizi, inserisca negli spazi pubblicitari acquistati dal motore di ricerca una parola chiave identica o simile al marchio di un concorrente, può essere accusato di contraffazione di marchio.

Il caso forse più noto è quello dell’uso del marchio “Interflora” come keyword da parte della catena di grandi magazzini Marks&Spencer per promuovere il proprio servizio di consegna di fiori e piante; uso ritenuto illecito sia dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee che dall’Alta Corte dell’Inghilterra e del Galles.

In Italia, la giurisprudenza ha disciplinato in modo diverso, nel tempo, l’uso in rete di marchi altrui a fini commerciali.

Le prime pronunce italiane in materia risalgono ai primi anni duemila e hanno ad oggetto l’uso del marchio altrui come meta tag (parole che vengono inserite nel codice HTML di un sito, teoricamente in grado di “ingannare” il motore di ricerca. Peraltro, oggidì, gli algoritmi dei motori di ricerca non prendono in considerazione i meta tag per determinare i risultati della ricerca). I Tribunali di Roma (18.01.2001), Milano (08.02.2002) e Napoli (28.01.2001) avevano escluso che l’uso come meta tag di una parola corrispondente al marchio di un concorrente costituisse contraffazione di tale marchio, principalmente perché il meta tag è invisibile all’utente e, quindi, il segno non si può dire usato in funzione distintiva. Avevano, invece, ritenuto che ciò potesse costituire un’ipotesi di concorrenza sleale, in particolare per agganciamento.

Al contrario, in tema di keyword advertising, il Tribunale di Milano (26.02.2009 e 11.03.2009) ha stabilito che l’uso di marchi altrui come keywords a fini pubblicitari costituisce, oltre che concorrenza sleale, anche violazione di marchio allorché l’uso avvenga anche in funzione distintiva (ad esempio, all’interno dell’annuncio pubblicitario), poiché tale uso è idoneo a generare confusione nei consumatori e, nel caso di marchi notori, anche a generare un profitto per l’utilizzatore e un danno per il titolare del marchio.

Recentemente il Tribunale di Palermo (07.06.2013), riprendendo la nota sentenza comunitaria Interflora cui si è accennato, si è pronunciato anche sulla responsabilità dell’Internet Service Provider, ovvero del fornitore del servizio pubblicitario (in questo caso, Google), negandola. Ciò in quanto, per i giudici panormiti, l’ISP non è tenuto a sorvegliare le inserzioni inserite dagli utenti (con ciò conformandosi a quanto prevede la legge in tema di responsabilità degli ISP -art. 17 D.Lgs. 70/03). Il Tribunale di Palermo ha anche tenuto in considerazione il fatto che Google avesse immediatamente bloccato l’associazione delle inserzioni col marchio ritenuto contraffatto, pur in assenza di un ordine dell’autorità (a seguito del quale l’ISP è, per legge, obbligato alla rimozione del contenuto illecito).

Quest’ultima pronuncia ci porge il destro per dare qualche consiglio: nel caso in cui ci si accorgesse che un terzo sta utilizzando il vostro marchio come keyword è consigliabile inviare una diffida al concorrente, intimandogli di cessare il comportamento illecito e, contemporaneamente, inviare una segnalazione al motore di ricerca, che potrebbe adeguarvisi anche prima che venga emesso un ordine giudiziale in tal senso. Sarà comunque necessario rivolgersi al giudice in caso di continuazione dell’illecito e per ottenere un eventuale risarcimento.

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