Silvia Magelli, Avvocato – Studio Legale Magelli, Docente Università di Parma

Il rispetto degli istituti di PI destinati a proteggere la creatività o la distintività del valore generato dall’attività, in particolare imprenditoriale, nel contesto competitivo del mercato è, com’è noto, importantissimo non solo per tutelare l’attività e il suo rilievo per la collettività, ma anche come incentivo all’investimento di potenziali futuri operatori.

La violazione di un diritto di PI, peraltro, oltre a ridurre la potenzialità di guadagno, costituisce un ingiustificato arricchimento inaccettabile alla luce dei principi generali dell’ordinamento giuridico.

Il legislatore comunitario con la direttiva 2004/48/CE ha voluto assicurare effettiva applicazione dei diritti di PI con misure che ne garantissero la tutela giurisprudenziale come previsto dai TRIPS.

Ha infatti previsto il ristoro di danni adeguati al pregiudizio effettivamente subito con modalità alternative tenendo in ogni caso conto di tutti gli aspetti pertinenti.

La tutela nazionale che ne è derivata è articolata e consente il rispetto dei diritti di PI in svariate situazioni ed in particolare nei confronti delle piccole realtà economiche (numerose in Italia) rendendo più credibili e/o appetibili i diritti di PI come strumenti di concorrenza alternativi al prezzo che il legislatore anche nazionale cerca di incentivare (si pensi da ultimo alla disciplina sul c.d. “Patent box”).

Un caso felicemente conclusosi è significativo della efficacia della disciplina e può essere ricordato.

Un imprenditore di terza generazione, omonimo del capostipite di Famiglia, ha valorizzato, rendendolo ancora più famoso nel settore, il nome di famiglia che ha utilizzato e registrato come marchio nel settore delle munizioni e, precisamente, per cartucce da caccia e da tiro a segno: il nome era anche comparso in competizioni internazionali.

Disavventure economiche aziendali sono intervenute. Il referendum sulla (meglio contro) la caccia (che lo si voglia valutare con favore o disfavore non rileva ai fini degli interessi in gioco del caso oggetto del procedimento giudiziale) ha profondamente inciso sull’avviamento dell’attività imprenditoriale che aveva ad oggetto appunto cartucce da caccia e da tiro a segno su cui veniva apposto il marchio patronimico (cioè il cognome) della Famiglia e del titolare.

Un’attività imprenditoriale provata dal disfavore e volta al termine (anche per età e qualche problema di salute del titolare) hanno probabilmente indotto a ritenere di poter approfittare di una situazione di debolezza con il deposito di un marchio omonimo effettuato da terzi.

Così una società multinazionale di altro Paese europeo nell’acquisire un ramo di azienda precedentemente legato all’attività del titolare del marchio ha ritenuto di fare suo anche il marchio omonimo palesemente depositato dalla cedente all’insaputa del titolare.

La multinazionale ha, quindi, registrato a suo nome il marchio patronimico per i medesimi prodotti: cartucce da caccia e da tiro (settore armi e munizioni in cui operava producendo polveri da sparo).

Il marchio era prezioso alla luce della peculiarità del mercato delle cartucce da caccia e da tiro che, negli anni cui si riferivano i fatti di causa, era saturo e caratterizzato da alte barriere all’entrata, situazione che permetteva solo ad un numero ristretto di aziende di posizionarsi sul mercato stesso.

L’attività sportiva del settore caccia era peraltro fiorente in altre aree geografiche e il nome/marchio in esame molto conosciuto e apprezzato dagli sportivi del settore anche fuori dai confini nazionali.

Veniva accertata (e confermata in tre gradi di giudizio) la nullità del marchio (oggetto della illegittima registrazione) sia per l’esistenza del marchio anteriore del Signor B.M. sia per avvenuto deposito di nome di persona senza il consenso dell’avente diritto. Il titolare del marchio patronimico agiva per il risarcimento dei danni subiti. Nel procedimento per il risarcimento dei danni la situazione delle parti si presentava con rapporto di concorrenza inesistente: da un lato una persona fisica e da un altro lato una multinazionale. La mancanza di capacità imprenditoriale del titolare del marchio patronimico enfatizzata dalla multinazionale non giustificava, a suo dire, alcun lucro cessante e dalla dichiarazione di nullità del marchio derivava solo che essa, in quanto titolare del marchio dichiarato nullo, non poteva più impedirne l’uso ad altri, senza alcun obbligo risarcitorio. Alla luce di tale situazione, il CTU del primo grado affermava addirittura che il “valore” del marchio patronimico al momento dell’utilizzo da parte della multinazionale era pari a “zero”.

Il titolare del marchio patronimico in appello ha sostenuto, invece, che il lucro cessante doveva essere valutato tenendo conto degli utili realizzati in violazione del diritto e dei compensi che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare qualora avesse avuto licenza dal titolare del diritto come previsto dall’art. 125 CPI in conformità delle indicazioni fornite dall’art. 13 della Direttiva 2004/48/CE.

La Corte d’Appello pur precisando che ratione temporis la norma applicabile disponeva che il giudice poteva liquidare i danni in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivavano, affermava che il danno subito dal Signor B.M. era comunque consistito nel non avere potuto godere del risultato dello sfruttamento economico del marchio a causa del comportamento della multinazionale la quale avrebbe dovuto ottenere l’autorizzazione presumibilmente subordinata al pagamento di un corrispettivo: la  liquidazione del danno doveva, pertanto, basarsi sull’entità di tale presumibile corrispettivo. Il metodo che appariva maggiormente idoneo a determinare il parametro da utilizzare per la liquidazione del danno era quello delle royalties applicato al fatturato della multinazionale realizzato apponendo il marchio oggetto della illegittima registrazione.

Il parametro individuato, le royalties nel settore, ha incontrato, peraltro, difficoltà ad essere definito nella portata. Infatti, se è vero che i contratti di licenza di marchio spesso sono accompagnati da grande riservatezza, in un settore delicato come quello di strumenti per armi, sia pure sportive, lo sono a maggior ragione.

La Corte nel riconoscere il risarcimento in una somma globale, formulava la sua valutazione sulla base delle royalties presunte applicando un parametro emerso in atti ed a fronte di un fatturato di diversi miliardi di lire ha liquidato il danno nella somma di un milione di euro.

Significativo è il confronto tra una valutazione del “valore” del marchio alla luce della mancanza di attività (= zero!) e alla luce della potenzialità secondo i criteri più consoni adottati nella felice e congrua evoluzione della disciplina che consente di tutelare il lavoro imprenditoriale svolto.

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