Fabio Giambrocono, Consulente in Proprietà Industriale – Giambrocono & C. Spa
Esistevano due società, una italiana e una statunitense, entrambe operanti nel mondo del “Building Automation”. Si tratta di un settore ad alta tecnologia . Le due società si erano scontrate nel mondo su delle commesse e nell’ambito delle trattative avevano imparato a rispettarsi e ad apprezzare l’altrui tecnologia. I due Amministratori avevano deciso di unire le loro forze costituendo una nuova società che sommasse i due patrimoni di tecnologia e immagine. I due ritenevano che le due società si equivalessero per quel che riguarda patrimonio e tecnologia ed erano convinti che non fossero necessari conguagli. Tuttavia nessuno dei due voleva agire con approssimazione. Furono commissionate delle “due diligence” e delle opinioni sul valore dei marchi e brevetti a degli esperti. Ai tempi ero cosciente dell’opinione degli amministratori circa l’equivalenza del patrimonio tecnologico delle due società. L’una era più forte per certi prodotti mentre all’altra lo era per prodotti complementari. L’impresa statunitense aveva depositato un brevetto per ogni nuova soluzione tecnologica e quindi disponeva di un portafoglio brevettuale di circa 36 famiglie. L’imprese italiana invece non aveva brevetto alcuno. L’Amministratore dell’impresa italiana pensava che brevetto non servisse in quanto bastava possedere il know how tecnologico. Senza questo know how tecnologico sarebbe stato difficile realizzare, nella pratica, gli impianti in cui le imprese italiane eccelleva, quindi egli pensava che la tutela risiedesse nei propri ingegneri e nelle maestranze. L’impresa USA aveva depositato il marchio in quasi 20 paesi, l’italiana possedeva il marchio solamente in quattro paesi europei mentre l’uso dello stesso si estendeva su 25 paesi. Mentre i diritti di proprietà industriale dell’impresa USA si erano “cristallizzati” in beni immateriali, identificabili con i numeri di registrazione e iscritti a bilancio, i diritti di proprietà industriale dell’impresa italiana erano tutti da dimostrare e non erano valorizzati in alcuna voce di bilancio. Gli accordi prevedevano che qualora si fossero misurate delle differenze di valore l’impresa meno capitalizzata avrebbe dovuto conguagliare monetariamente la differenza al 50% del nuovo patrimonio comune. Fatte le relative misurazioni, l’imprenditore italiano avrebbe dovuto versare nella cassa comune circa 40 miliardi di vecchie lire! Il disavanzo era dovuto a una differente valutazione dei beni immateriali in particolare marchi e brevetti. Il risultato della “Valutazione” strideva con l’opinione iniziale dei due imprenditori che avevano sommariamente valutato come equivalenti i rispettivi patrimoni. L’imprenditore italiano non riusciva a comprendere come la sua “tecnologia” non avesse valore misurabile e non potesse costituire un valido diritto. È stato per lo scrivente molto difficile spiegare come chi compra un “marchio” o un “brevetto” compra sostanzialmente un diritto. Non si compra quindi solo la bontà della tecnologia ma “ il diritto esclusivo di produrre” o nel caso del marchio “ il diritto esclusivo di usare quella parola per contraddistinguere determinati prodotti in uno Stato”. L’oggetto della compravendita è quindi un diritto….. se quel diritto non si è costituito per mancanza di brevettazione o di registrazione non vi è “l’oggetto” dello scambio e, quindi, un oggetto inesistente difficilmente potrà essere dotato di un valore. L’imprenditore italiano non aveva disponibilità di 40 miliardi di vecchie lire per conguagliare all’operazione e quindi la joint-venture non è andata in porto con grande disappunto di entrambi gli imprenditori e, in particolar modo, dell’imprenditore italiano che non aveva ancora percepito il proprio errore. Purtroppo gli eventi successivi porteranno una dura lezione. L’imprenditore americano si è messo a studiare “sul campo” le soluzioni ingegneristiche dell’impresa italiana. Ben presto l’impresa americana è riuscita a replicare le tecnologie dell’impresa italiana e, in un paio di casi, anche a migliorarle. L’operazione è stata possibile data l’assenza di diritti di brevetto. Non solo, ma due ingegneri dell’impresa italiana sono stati dapprima “corteggiati” dall’impresa statunitense e poi messi sotto contratto con un compenso di tutto rispetto. Sebbene il corrispettivo fosse stato decisamente elevato questo non è mai paragonabile all’acquisto di brevetti o, anche, di una semplice licenza. Il know how si è quindi travasato dall’impresa italiana all’impresa statunitense insieme ai due ingegneri e, successivamente, anche insieme ad altri tecnici. L’impresa italiana oggi non opera più. Da qui la mia ferma volontà di testimoniare il caso, perché situazioni del genere non accadano più.