Laura Turini, Avvocato, Studio Brevetti Turini S.r.l

Proteggere i propri marchi è da sempre di fondamentatale importanza per un’impresa e maggiormente lo è da quando Internet è diventato un vero e proprio mercato oltre che un mezzo di comunicazione.

Registrando un marchio si può recuperare, in via giudiziaria o amministrativa, un nome a dominio ad esso corrispondente che sia stato registrato abusivamente da terzi, ma si può anche intervenire per fermare altre forme di concorrenza illecita.

Un abuso che si riscontra con sempre maggiore frequenza in Internet è l’uso di marchi altrui come parola chiave per l’Adwords di Google.

Adwords è un servizio di posizionamento a pagamento che consente ad un utente di potere “acquistare” una o più parole chiave al fine di ottenere il più alto posizionamento del proprio sito quando un utente Internet le utilizza.

Esistono diverse modalità di utilizzo del servizio in base a tipo di risultato che si vuole ottenere. In particolare si può optare tra la funzione di “corrispondenza generica” che prevede una corrispondenza predefinita tra le parole chiave ed i risultati voluti e la funzione di “corrispondenza estesa” che lascia al motore di ricerca la possibilità di ampliare il risultato della ricerca anche a termini ad esse vicini alle parole chiave.

Nella maggior parte dei casi Google consente agli utenti di potere scegliere qualsiasi termine come parola chiave, inclusi marchi aziendali di terzi, in quanto non effettua alcun tipo di filtro.

Ci si è chiesti già da tempo se Google non incorra in una qualche responsabilità offrendo tale servizio.

La Corte di Giustizia ha tendenzialmente escluso la responsabilità del motore di ricerca facendola tuttavia ricadere sull’inserzionista che ha scelto di usare un certo marchio come parola chiave.

In tal senso Corte Giust. UE, 23.03.2010 (cause riunite da C-236/08 a C-238/08, Google France) che afferma: «inserendo il nome di un marchio quale parola da ricercare l’utente di Internet si prefigge di trovare informazioni od offerte sui prodotti o sui servizi di tale marchio. Pertanto quando sono visualizzati, sopra o a lato dei risultati naturali della ricerca, link pubblicitari verso siti che offrono prodotti o servizi di concorrenti del titolare di detto marchio, l’utente di internet, se non esclude subito tali link in quanto non pertinenti e non li confonde con quelli del titolare del marchio, può percepire che detti link offrano un’alternativa rispetto ai prodotti o ai servizi del titolare del marchio».

Questi principi sono stati confermati ed approfonditi anche nelle pronunce successive (Corte Giust. UE, 12.07.2011, C-324/09, L’Oréal v. eBay; Corte Giust. UE, 22.09.2011, C-323/09, Interflora v. Marks & Spencer).

I Giudici italiani si sono sempre più conformati alla giurisprudenza della Corte di Giustizia.

Molte sono le decisioni delle nostre corti che hanno ravvisato nell’uso del marchio come adwords oltre che un’ipotesi di contraffazione anche una concorrenza sleale (Tribunale di Milano 27.09.2010, marchio Ioprego; Tribunale di Milano 22.10.2010, marchio Luceplan; Tribunale di Bologna 22.05,2011, marchio Kappazeta; Tribunale di Milano 23.11.2012, marchio Flos).

È in questo contesto che si inserisce la recente sentenza 5451/2016 del Tribunale di Milano che ha riconosciuto la violazione dei diritti sul marchio “Remail” da parte di un concorrente che aveva utilizzato quella parola per fare risultare tra i primi risultati su Google i propri siti “quivita.it”, “quivita.com” e “vascanuova.it”.

Il Tribunale richiama la giurisprudenza della Corte e ribadisce che la contraffazione sussiste «quando l’annuncio non consente o consente soltanto difficilmente all’utente di Internet normalmente informato e ragionevolmente attento di sapere se i prodotti o i servizi a cui l’annuncio si riferisce provengano dal titolare del marchio o da un’impresa economicamente collegata a quest’ultimo oppure, al contrario, da un terzo»  (sentenze CE 18.06.2009, C-487/07 L’Oréal e 02.072010, C-588/08, Portakabin).

Nel caso in esame, i messaggi risultavano inseriti subito dopo quelli del titolare del marchio senza che vi fosse una chiara individuazione del diverso soggetto da cui provenivano i servizi per cui questo ingenerava un rischio di confusione. Il fatto che nome di dominio fosse diverso è stato ritenuto irrilevante, sia perché collocato sotto l’annuncio, sia perché spesso le aziende utilizzano più nomi di dominio per promuovere i propri marchi.

Il convenuto si è difeso sostenendo di essersi avvalso della funzionalità “corrispondenza estesa” di Google per cui egli non avrebbe scelto volutamente il marchio “Remail” come parola chiave per il posizionamento dei propri siti ma questo accostamento sarebbe dipeso dal funzionamento del sistema di Google sul quale egli non poteva avere alcun controllo.

Il Giudice ha tuttavia ritenuto che, anche se così fosse, egli risponderebbe in ogni caso nei confronti di terzi degli effetti pregiudizievoli derivanti dall’attivazione del servizio che, nel bene o nel male, ha deciso di utilizzare e sul cui funzionamento avrebbe dovuto informarsi.

La decisione è interessante anche per lo sforzo teso a quantificare il danno risarcimento in assenza di specifica prova sul punto.

Il Tribunale prende infatti atto che, in corso di causa, non è emerso alcun elemento di prova del mancato guadagno, ovvero di perdite derivanti dalla violazione dei diritti di marchio e che, al contempo, non è stato accertato che il convenuto abbia concluso degli affari a seguito dell’utilizzo del servizio di Google per cui mancavano i parametri tradizionali per il ristoro.

Il Tribunale ha però adottato il criterio alternativo di liquidazione del danno da lucro cessante previsto dal secondo comma dell’art. 125 CPI.

La nuova formulazione dell’articolo, introdotta con il D. Lgsl. 16.03.2006 n. 140, prevede che anche qualora non si riesca a dimostrare il lucro cessante esso dovrà comunque essere determinato in un importo «non inferiore a quello del compenso che il contraffattore avrebbe dovuto pagare al titolare qualora avesse ottenuto una licenza dal titolare del diritto leso».

La norma opera una presunzione iuris et de iure di consenso ed il criterio trova applicazione anche quando in concreto questo consenso non vi sarebbe mai stato.

Prendendo in considerazione il fatturato del convenuto derivante dalla fornitura dei servizi riconducibili al marchio e la durata della presenza in Internet, il convenuto è stato condannato a corrispondere un risarcimento danni di 13.000,00 Euro.

La somma è piuttosto significativa considerato il relativamente breve periodo di permanenza dell’annuncio ed il fatturato non elevato, oltre che la circostanza della rimozione dell’annuncio fin dalla fase cautelare del procedimento.

In casi particolarmente gravi, anche in assenza di prova diretta del danno, il risarcimento potrebbe quindi diventare anche molto elevato a tutto vantaggio del titolare del marchio registrato.

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