Natale Rampazzo, Avvocato – Borghese e Giordano Studio Legale Associato, Treviso
Nel settore agroalimentare, la produzione secondo metodi naturali è l’equivalente dell’originalità del marchio sul piano della proprietà industriale: come in quella sede c’è chi si oppone agli organismi geneticamente modificati, in quest’ultima si difende il valore di investimento in un marchio registrato e/o affermatosi nella prassi degli affari con particolare carattere di rinomanza. I marchi, “opportunisticamente“ modificati, incidono sul tessuto finanziario dell’azienda legittimamente titolare del marchio originario con la possibile conseguenza di deviarne significativi flussi di clientela grazie all’effetto attrattivo del marchio notorio (sfruttato per agganciamento) e dell’inganno perpetrato, a danno dei consumatori, attraverso il suo mascheramento. Salvi alcuni casi, la concorrente persistenza di marchi confondibili è in grado di arrecare tali svantaggi specie quando il settore merceologico sia il medesimo. L’identificazione del settore di riferimento è determinante ai fini del riconoscimento della possibilità di sovrapposizione dei marchi e costituisce una delle attività analitiche che il giudice deve svolgere per la decisione di una causa, al fine di stabilire se i prodotti e i servizi contrassegnati siano destinati a soddisfare le medesime esigenze di mercato e rivolti alla medesima clientela. Sul finire del 2012, con sentenza n. 3867, la Corte di Appello di Napoli si pronunciò sulla natura contraffattiva di un marchio di fatto di un’azienda produttrice di conserve di pomodori, in cui veniva utilizzata la forma alterata di altro marchio che incorporava invece un riferimento alla frutta. Il caso è interessante perché consente di verificare, da un lato, il collegamento tra la parte denominativa o figurativa del marchio con il prodotto contrassegnato, dall’altro, la metodologia che deve essere utilizzata dal giudice nel rilevare la contraffazione. Una parola di uso comune (come frutta o verdura), atta a descrivere il prodotto, non assume valenza particolare nell’ambito della ricognizione della forza del marchio, nel senso che essa non esplica una funzione caratterizzante e individualizzante. Tuttavia, la Corte di Appello ha ritenuto che tale parola non debba interpretarsi come generica, laddove essa venga utilizzata, all’interno di un marchio complesso, come sua componente, per designare un prodotto che non rientra strettamente nella gabbia concettuale e semantica suggerita dalla stessa parola (ad es. il marchio pomodoro per commerciare mele). Occorre tener presente che la costruzione di un marchio che mutui dal vocabolario comune un nome generico corre il rischio di non raggiungere quel plus distintivo idoneo a renderlo identificativo e originale. La sentenza citata ha enunciato principi precisi, dai quali si evince che l’aggiunta di un prefisso o di un suffisso, ad esempio, può convertire un termine ordinario in un unicum e conferire ad esso un senso disgiunto dai singoli elementi che lo compongono. Inoltre che non è sufficiente la mera variazione del prefisso di un marchio a liceizzarne l’uso da parte di altro soggetto (la sostituzione di due lettere foneticamente contigue, in una parola di nove lettere non è stata ritenuta caratterizzante). Illecito è da considerarsi anche l’operato di chi applichi ad un marchio di altrui titolarità elementi figurativi, atteso che il consumatore è più facilmente attratto dalla parte denominativa, costituente elemento dominante di comunicazione e riconoscimento dei prodotti oltre che maggiormente suscettibile di memorizzazione. Con riferimento al ruolo del giudice va ricordato che il suo apprezzamento deve operare non in via analitica, attraverso esame particolareggiato e separata considerazione di ogni singolo elemento, bensì in via globale e sintetica, avuto riguardo all’insieme degli elementi salienti grafici e visivi del marchio, mediante una valutazione ‘di impressione’.