Claudia Signorini, Avvocato e Anna Pianura, Praticante Avvocato, Studio Ghidini Girino e Associati, Milano

La valutazione del rischio di confondibilità tra marchi d’impresa costituisce un passaggio fondamentale nel giudizio di contraffazione.

In proposito, indicazioni illuminanti provengono dalla decisione della Corte di Cassazione del 27 maggio 2016 n. 11031, nel caso che vede schierati, da un lato F.lli Branca Distillerie, la storica azienda produttrice dell’amaro fernet e, dall’altro, la concorrente P. Franzini & C. di Giuseppina Villa. Quest’ultima era stata convenuta in giudizio dalla F.lli Branca Distillerie che lamentava la contraffazione, nonché l’imitazione confusoria del proprio marchio, apposto sulla bottiglia dell’amaro “Fernet Branca” e consistente in una etichetta di colore giallognolo caratterizzata da alcuni elementi grafici e riportante la denominazione “Fernet Branca” in una particolare grafia.

Il Giudice di primo grado aveva accolto le domande di parte attrice ritenendo confondibili i marchi delle parti e sussistente la concorrenza sleale. Tale decisione veniva poi ribaltata dalla Corte di Appello di Milano che, considerando irrilevante la somiglianza grafico-figurativa tra i segni delle parti e ritenendo sufficiente, a scongiurare il rischio di confondibilità, la diversità dell’elemento denominativo recante l’indicazione dell’impresa di provenienza, aveva escluso la contraffazione del marchio “Fernet Branca” da parte di Franzini. La Suprema Corte, in accoglimento del ricorso proposto da F.lli Branca contro la sentenza del Giudice d’Appello, ha cassato tale decisione per non aver applicato i criteri che governano il giudizio di confondibilità tra i marchi, e ha rinviato alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione perché giudichi sulla confondibilità dei marchi “Fernet Franzini” e “Fernet Branca”.

La Corte di Cassazione nella sentenza in commento ha fornito un efficace compendio delle regole che devono guidare l’interprete nel giudizio di confondibilità tra marchi in conflitto.

Da un lato la Cassazione invita l’interprete a tenere in considerazione il ruolo giocato in concreto dai singoli elementi che compongono il marchio. Dall’altro, la Suprema Corte esprime delle valutazioni generali riguardo al peso giocato dall’elemento figurativo dei marchi nell’impressione complessiva generata nei consumatori dal segno, soprattutto nel contesto dei cd. “acquisti d’impulso”.

Vediamo dunque le linee guida dettate dalla Cassazione. In primo luogo, è stato ribadito che la valutazione della somiglianza tra i segni in conflitto deve compiersi in via globale e sintetica. Pertanto, l’interprete è chiamato a valutare, caso per caso, il peso dei singoli elementi grafici, visivi e fonetici, nonché di quelli concettuali e semantici del marchio nell’impressione complessiva dei consumatori, tralasciando l’esame degli elementi meramente marginali o decorativi, non percepiti come distintivi.

Tale criterio generale trova applicazione specifica anche nel caso dei marchi cd. “d’insieme”, quale quello oggetto di causa. Si tratta in particolare di quei segni nei quali non è individuabile una parte caratterizzante, ossia il c.d. “cuore del marchio”, in quanto tutti i vari elementi concorrono a determinare il carattere distintivo del segno grazie alla loro combinazione.

La Cassazione ha espresso poi anche delle valutazioni di carattere generale con riguardo al peso degli elementi figurativi del marchio nell’impressione complessiva generata dai segni in conflitto.

Il rilievo degli elementi grafici e figurativi non è inferiore a quello degli elementi strettamente denominativi. Ciò soprattutto nel caso di prodotti di largo consumo venduti nelle catene della grande e piccola distribuzione. In tali situazioni di mercato, infatti, il consumatore procede, per lo più, ai c.d. “acquisti d’impulso”.

Il consumatore non indugia, né si attarda a scrutinare minuziosamente il complessivo “vestito” del prodotto. Guarda rapidamente lo scaffale e/o il bancone di mescita del prodotto ritenendone un’immagine immediata e sintetica. In relazione a tale tipo di acquisto, il consumatore può quindi essere più agevolmente fuorviato da immagini, colori e da ogni altro elemento grafico o figurativo simile a quello di altro marchio.

A ciò si aggiunga che il rischio di confusione può anche consistere in un mero rischio di associazione, che ricorre ogni volta che il consumatore – sia pur istantaneamente – istituisca un collegamento tra un marchio e l’altro e, nel far ciò, trasferisca anche solo inconsciamente l’accreditamento dell’uno sull’altro. I consumatori possono così essere tratti in inganno credendo che i prodotti provengano dalla stessa impresa o da imprese economicamente legate tra loro, pur non ritenendo che si tratti dello stesso produttore.

Tale rischio di associazione peraltro è ancora più accentuato in relazione ai marchi cosiddetti “celebri”, considerato che tanto più in questi casi il consumatore medio può cadere in inganno attribuendo al titolare del marchio celebre la fabbricazione anche di altri prodotti.

In conclusione, due gli insegnamenti fondamentali che si traggono dalla lettura della sentenza. In primo luogo dovranno evitarsi valutazioni in astratto. Il confronto tra i marchi va sempre svolto in concreto ed in modo realistico, esaminando tutti gli elementi che compongono il marchio, il suo grado di distintività, il tipo di prodotto, lo specifico tipo di clientela di riferimento.

In secondo luogo, non va dimenticato che è lo specifico consumatore il parametro di riferimento su cui calibrare il giudizio. Esiste ormai copiosa giurisprudenza, nazionale e comunitaria, nella quale si esaminano in concreto capacità e grado di attenzione di specifiche fasce di clientela.

Sebbene sia ormai consolidato il riferimento ad un consumatore medio, ragionevolmente avveduto ed attento, non può sottovalutarsi che il bombardamento di immagini pubblicitarie al quale siamo sottoposti attraverso ogni mezzo di comunicazione, in modo spesso rapido, pressante e frammentato, possono spesso offuscare l’attenzione del pubblico, specie ove si tratti di acquisti di non alto prezzo.

In questo contesto, è dunque condivisibile la severità mostrata dalla giurisprudenza nei confronti di fenomeni imitativi. Va quindi colta l’indicazione di evitare di cadere in facili automatismi e in valutazioni aprioristiche.

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