Riccardo Fecchio, Avvocato, Consulente Marchi Italiano ed Europeo, De Simone & Partners, Roma
Nel 1989 il legislatore comunitario decise che la rinomanza acquisita dalle “bevande spiritose” meritava riconoscimento e tutela contro le appropriazioni indebite, gli usi commerciali scorretti e le fabbricazioni non fedeli alla tradizione. Da allora si è voluto tutelare il valore commerciale raggiunto dai più famosi liquori, senza dimenticare i profili di tutela del consumatore.
Il regolamento 1576 dell’89, e ancor più chiaramente il Regolamento 110 che l’ha sostituito vent’anni dopo, nel 2008, premettono che “le bevande spiritose sono importanti per i consumatori, i produttori e per il settore agricolo della Comunità” e “dovrebbe essere salvaguardata la rinomanza conquistata dalle bevande spiritose [..], continuando a tenere conto dei metodi seguiti tradizionalmente per la produzione”.
Tra i prodotti la cui rinomanza è sancita, vi era e vi è rimasta nel Regolamento più recente la sambuca, liquore di antiche tradizioni aromatizzato all’anice, creato da Luigi Manzi nel 1851 a Civitavecchia. Nel disciplinarne la tutela, il Regolamento non ha lasciato spazio all’immaginazione e ne ha dettagliato le caratteristiche: oltre a descrivere l’uso dell’ingrediente principale, ovvero l’anice verde o stellata, ne è descritta precisamente l’assenza di colore, il tenore di zuccheri e di anetolo ed il titolo alcolometrico (la c.d. “gradazione alcolica”) minimo.
Come spesso accade, però, a fronte di un impianto legislativo articolato e complesso, l’effettiva tutela è demandata ad un articolo di chiusura, laconicamente rubricato “Controllo e protezione delle bevande spiritose”, secondo cui “gli Stati membri provvedono al controllo delle bevande spiritose”.
Il risultato è che gli strumenti di protezione preposti si rivelano non all’altezza dell’impianto legislativo. Il problema non riguarda solo la sambuca, sebbene proprio con essa, nella nostra esperienza, siano emersi tutti i limiti della protezione concessa in particolare dell’Italia.
Il problema ha una duplice natura: il primo è l’esistenza di molteplici organi astrattamente competenti ad intervenire. Nel nostro Paese opera in primis – in quanto espressamente individuato dal Decreto di attuazione del Regolamento – l’Ispettorato Centrale della Tutela della Qualità e della Repressione Frodi dei Prodotti Agroalimentari – ICQRF del Ministero per le Politiche Agricole e Forestali, ma anche, incidentalmente, la Guardia di Finanza, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, e – si deve ritenere – le Associazioni dei consumatori quali legittimate attive in giudizio. Dall’altro, manca la possibilità di coordinare gli interventi a livello europeo, posto che sembrerebbe sussistere solo obbligo di mera “informazione” degli organismi nazionali in favore di quelli europei, senza che sia tuttavia previsto un seguito a tali informative.
Quando poi la considerazione passa alla violazione su Internet, la situazione peggiora. Sebbene siano stati compiuti molti ed importanti passi in avanti, Internet è ancora il banco di prova dell’effettività della tutela. In Internet più che nel mercato fisico, la necessità di prevedere un coordinamento sovranazionale diventa essenziale per poter manovrare efficacemente.
Ad oggi, il Regolamento rimane inefficace sotto questo punto di vista e lascia ai produttori – auspicabilmente raccolti in associazioni – l’onere di informare le autorità, stimolandole quando necessario, nonché di informare i consumatori dei pericoli che conseguono dall’adozione di alcune pratiche commerciali scorrette.
E’ perciò auspicabile che, nel quadro di rinnovato ottimismo circa le possibilità dell’Italia di incidere sulle scelte legislative legate al settore alimentare, anche grazie all’EXPO da poco iniziato, le prossime mosse abbiano chiara la direzione della maggior tutelabilità, anche in Internet, delle denominazioni protette. Sarà questo, infatti, il settore di crescente e maggiore interesse nell’immediato futuro: un appuntamento al quale sarebbe più facile farsi trovare preparati.