LUCIA BRESSAN lbressan@studio-bressan.com
La diffusione di Internet ha ampliato lo scenario delle opportunità commerciali disponibili per le imprese rendendo ogni giorno più aspra la competizione finalizzata ad attrarre il maggior numero di visitatori sul proprio sito web. In questo contesto non sono mancati episodi in cui i mezzi utilizzati per raggiungere tale scopo hanno sconfinati nell’illecito, come casi di utilizzo illegitimmo del marchio nell’acquisto di online advertising.
Per ogni parola chiave inserita in un motore di ricerca la pagina che appare darà due tipi di risultati: a) quello spontaneo o naturale collegato a quei siti ritenuti pertinenti alla parola chiave in base a criteri oggettivi e b) quello afferente agli annunci pubblicitari dei siti web degli inserzionisti.
I fornitori di motore di ricerca (es. Google) offrono un servizio a pagamento di posizionamento (AdWords) tramite il quale l’inserzionista, utente di Internet, seleziona ed acquista quelle parole chiave – comunemente definite keywords nel web marketing – che una volta inserite nella barra di ricerca consentiranno giustappunto la visibilità del proprio sito web tra i risultati di ricerca quale link pubblicitario. Quest’ultimo apparirà nella rubrica “link sponsorizzato” sia sul lato destro dello schermo, ossia a destra dei risultati naturali, sia nella parte superiore, ossia sopra i risultati naturali. È necessario chiedersi se la parola chiave scelta sia oggetto di protezione ai sensi della legge sul diritto dei marchi e quali siano le eventuali conseguenze.
Il titolare di un marchio ha diritto di impedire l’uso dello stesso come keyword da parte di un concorrente?
La Corte di Giustizia dell’UE si è pronunciata cinque volte sul tema, da ultimo nella sentenza 22 settembre 2011 nel caso Interflora Inc./Marks & Spenser p.l.c. Nel dettaglio, Interflora gestisce una rete globale di distribuzione di fiori formata da fioristi indipendenti ed è titolare del marchio registrato INTERFLORA, che gode di notorietà in diversi stati dell’UE. La Marks and Spencer, proprietaria di una delle maggiori catene di grandi magazzini del Regno Unito, che vende e consegna fiori a domicilio ma non fa parte della rete Interflora, aveva acquistato la parola chiave “Interflora” nonché alcune varianti della stessa all’interno del servizio di posizionamento AdWords del motore di ricerca Google. Conseguentemente all’inserimento su Google della parola “interflora” o di una delle suddette varianti, sotto il titolo “link sponsorizzato” appariva un annuncio pubblicitario della Marks and Spencer. Nell’annuncio pubblicitario visualizzato non compariva alcun riferimento ad Interflora. Interflora aveva avviato un procedimento contro Marks and Spencer per violazione di marchio. La Corte di Giustizia UE ha confermato che il titolare di un marchio ha il potere di impedire ad un inserzionista di utilizzare un marchio identico, o simile a quel marchio, per prodotti o servizi identici a quelli coperti dal marchio stesso se tale uso pregiudica una delle seguenti funzioni del marchio: a) consentire all’utente Internet di ricondurre al titolare del marchio i prodotti o i servizi menzionati nell’annuncio pubblicitario; b) l’acquisizione ovvero il mantenimento da parte del legittimo titolare di una reputazione idonea ad attirare i consumatori ed a fidelizzarli.
E se si tratta di marchio noto, può il titolare impedire l’uso dello stesso come keyword senza dover dimostrare l’esistenza di un rischio confusorio con il link sponsorizzato?
Le norme dell’UE prevedono una tutela molto amplia per i marchi che godono di notorietà per cui l’uso non è consentito ove il terzo tragga indebito vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà o, ancora, arrechi pregiudizio allo stesso. Costituisce, per contro, sana e leale pratica concorrenza l’uso del marchio (noto) finalizzato ad attirare l’attenzione dell’utente sull’esistenza di un prodotto o di un servizio alternativo a quello offerto dal titolare del marchio in questione, purché ciò non pregiudichi le funzioni del marchio stesso.
L’acquisto di keywords da parte del terzo trasferisce la responsabilità sul prestatore del servizio di posizionamento?
La Corte di Giustizia dell’Unione Europea, con sentenza della Grande Sezione 23 marzo 2010, ha stabilito che il prestatore di servizio di posizionamento, ancorché percipiente un compenso per l’uso del segno distintivo (marchio) da parte di terzi, ciononostante non fa un “uso nel commercio” di termini corrispondenti ai marchi ai sensi dell’art.5 co.1, lett. a) della Direttiva 2008/95/CE. Motivo per cui il prestatore di servizio di posizionamento non viola i diritti di marchio ai sensi della normativa europea ove, non facendo un uso nel commercio, permette agli inserzionisti di acquistare parole chiave simili o identiche a marchi registrati. Il segno distintivo (marchio) non v’è dubbio che viene utilizzato come parola chiave dall’inserzionista al fine di ottenere la visualizzazione di un link pubblicitario nel contesto di una attività commerciale, allo scopo di offrire agli utenti di Internet una alternativa ai beni o ai servizi offerti dal titolare del marchio. Tuttavia, qualora la funzione essenziale di indicazione e identità di origine del marchio al servizio o prodotto del legittimo titolare sia violata, allora si avrà la responsabilità dell’inserzionista per pubblicità ingannevole o concorrenza sleale.
Quando il prestatore del servizio può essere citato in giudizio?
Ancorché ai sensi degli artt. 14 e 15 della Direttiva sul commercio elettronico n. 31/2000/CE il prestatore del servizio di posizionamento non possa essere ritenuto responsabile per una parola chiave che ha memorizzato su richiesta di un inserzionista, ciononostante non potrà considerarsi immune qualora, venuto a conoscenza della natura illecita di tali dati o di tale attività, egli abbia omesso di rimuovere prontamente o disabilitare l’accesso alla parola chiave in questione. Cosi la figura di “Internet Service Provider attivo” si individua in tutti quei casi in cui il prestatore ha offerto una assistenza atta ad ottimizzare la presentazione delle offerte di vendita di cui trattasi e nel promuovere tali offerte (posizionamento di banners e links pubblicitari).
Conclusione
La rete, ed il commercio elettronico, ha moltiplicato le minacce attuate attraverso forme di agganciamento parassitario a favore di prodotti o servizi dichiaratamente diversi da quelli autentici. A prescindere dalla evidente responsabilità dell’inserzionista, non può andare esente il gestore del servizio (o della piattaforma di vendita on-line) che svolge un ruolo attivo atto a conferire una conoscenza o un controllo dei dati relativi a dette offerte e memorizzati. Ecco che una lotta efficace alla violazione dei diritti sui marchi in rete presuppone comunque un ruolo attivo delle imprese interessate, sia attraverso strumenti prevenivi di informazione, sia attraverso il monitoraggio e la pronta segnalazioni di illeciti.