Gualtiero Dragotti, Avvocato – Partner DLA Piper, Milano

Il primo obiettivo che di regola si prefigge il titolare di un diritto esclusivo che subisce una contraffazione è la cessazione dell’illecito, che deve intervenire senza ritardo; diversamente i danni rischiano di crescere in maniera esponenziale e divengono concretamente irreparabili.

La giurisprudenza italiana ha da tempo riconosciuto quanto precede e consente l’accesso alla tutela cautelare, che ben si presta a fornire una reazione tempestiva alle violazioni dei diritti esclusivi, e questo tramite un articolato carnet di misure, che vanno dal sequestro dei prodotti contraffatti all’inibitoria ed al ritiro dal commercio dei medesimi, sino eventualmente alla pubblicazione del provvedimento sulla stampa e/o sulla rete Internet.

Al fine di assicurare il rispetto di tali provvedimenti, essi possono essere assistiti da una penale; la quale  non è però l’unica conseguenza di carattere economico che il contraffattore si trova a fronteggiare: esso è infatti tenuto anche a risarcire i danni cagionati dall’illecito.

Sennonché il tema del risarcimento del danno ha in passato  costituito un elemento di conclamata inefficienza del nostro sistema di protezione dei diritti IP: le condanne significative si contavano sulle dita di una mano, tanto che spesso i titolari dei diritti si accontentavano di conseguire una condanna generica, trascurando di instaurare il successivo giudizio volto alla determinazione del risarcimento.

Questo approccio è sfociato in un circolo vizioso, che non ha consentito ai nostri tribunali di mettere a punto prassi interpretative consolidate in tema di risarcimento del danno.

Negli ultimi anni vi è stata tuttavia una significativa inversione di tendenza.

Il punto di svolta può essere individuato nel D.Lgs. 140/2006, che ha attuato in Italia la cd. Direttiva “Enforcement”, riformulando le norme in materia di risarcimento del danno cagionato dalla violazione dei diritti di proprietà industriale.

Il nuovo testo dell’art. 125 del Codice della Proprietà Industriale prevede oggi tre criteri per il calcolo del danno da contraffazione.

Il primo, che potremmo definire tradizionale, prevede di ricostruire il danno sommando le diminuzioni patrimoniali dirette del titolare dell’esclusiva (cd. danno emergente) con i minori profitti derivanti dalla contraffazione  (cd. lucro cessante). In tale determinazione, dice la norma, occorre tenere conto di tutti i fattori rilevanti, compresi “i benefici realizzati dall’autore della violazione e, nei casi appropriati, elementi diversi da quelli economici, come il danno morale arrecato al titolare del diritto dalla violazione”.

Il secondo criterio è quello della cd. “royalty ragionevole”, e vale a fissare il limite minimo del risarcimento, che non può essere comunque inferiore “a quello dei canoni che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare, qualora avesse ottenuto una licenza dal titolare del diritto leso”.

Il terzo criterio, che non è alternativo a quelli appena esposti ma si aggiunge ad essi, rinvia agli utili conseguiti dal contraffattore, che il titolare del diritto leso ha comunque diritto a percepire, e ciò non in un’ottica puramente risarcitoria bensì di deterrence: si vuole evitare che la contraffazione si traduca in un profitto per coloro che violano i diritti, scoraggiandola.

L’apparato normativo appena riassunto consente di sanzionare in maniera efficace la contraffazione anche sotto il profilo economico.

Occorre tuttavia uno sforzo da parte degli operatori del settore, giudici ed avvocati in primis, i quali debbono essere pronti a dismettere l’approccio consolidato, che relegava il tema del risarcimento del danno ad un ruolo residuale ed eventuale, in favore di una rinnovata attenzione alle misure atte a provare e quantificare il danno.

Così facendo è possibile pervenire a risultati lusinghieri, come comprova la recente decisione (Cass. 5497/2012) con cui la corte di Cassazione ha confermato la condanna di una impresa farmaceutica a corrispondere al titolare di alcuni brevetti un risarcimento pari a quasi sette milioni di euro.

Sulla stessa linea il Tribunale e la Corte di Appello di Milano, che recentemente hanno condannato un altro contraffattore ad un risarcimento milionario, di nuovo conducendo una approfondita analisi dei profili economici connessi all’illecito.

L’uno e l’altro caso, tra altri, dimostrano che gli strumenti per sanzionare la contraffazione in maniera significativa, anche dal punto di vista economico, ci sono e funzionano.

Occorre tuttavia saperli utilizzare, abbandonando il comodo cliché che vuole i tribunali italiani refrattari alle richieste di risarcimento. Non lo sono, purché si abbia cura di adottare un approccio nuovo ed attento anche a tali profili, cruciali per una effettiva tutela dei diritti di proprietà industriale.

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