Lorenzo Litta, Avvocato – De Simone & Partners, Roma

La crisi finanziaria ha raffreddato il mondo negli ultimi anni, incidendo anche sulle spese IP delle aziende. Più che mai la parola chiave per una strategia di brand protection di successo è “sostenibilità”. I grandi budget appartengono al passato. Le aziende sono estremamente attente a ribassare i costi per recuperare marginalità.
Questa è per molte società una opportunità per riconsiderare la strategia delle attività in rete.
La crisi economica e l’esperienza ci presentano una situazione nuova: migliore conoscenza e meno risorse.
Una buona ed efficace strategia di brand protection non può oggi non tenere conto di internet, come mondo parallelo, diverso e simile allo stesso tempo a quello reale.
La pianificazione anticipata, che comprende la scelta delle questioni da trattare e la scelta di un approccio flessibile, realistico e proporzionato ai problemi , così da essere quanto più possibile proattivi, i controlli dei costi e la definizione di un sistema di misurazione dell’efficacia, sono necessari perché le attività di protezione IP in rete siano di successo e sostenibili.
Una strategia generale per tutte le aziende non esiste. Ogni azienda è diversa dall’altra come ogni marchio è diverso dagli altri.
Nessun brand protection manager (BPM) potrebbe da solo concepire una strategia di marchio. I reparti marketing sono interlocutori necessari e dovrebbero sempre essere a stretto contatto con il BPM affinché questi possa avere una chiara comprensione del modo in cui le vendite ed il marketing funzionano.
Siamo tutti abituati alla facilità con cui i motori di ricerca forniscono risposte alle nostre ricerche. Chi cerca un prodotto su internet ormai ne ricerca il nome nei motori di ricerca piuttosto che digitare www.tuonome.qualsiasiestensionetivengainmente nella barra degli indirizzi. Ciononostante, molte aziende continuano a registrare i loro marchi come nomi a dominio in una moltitudine di TLD e ccTLD , col timore che non facendolo possano non essere trovate dai consumatori, o con il timore dei cybersquatter, che non dovrebbero essere la forza motrice del processo decisionale. Quando un prodotto ottiene successo, può diventare bersaglio dei concorrenti oppure di altri che ricercano una scorciatoia. Tuttavia, le aziende non depositano centinaia di marchi in tutto il mondo per prevenire l’ipotetica ed astratta possibilità di un deposito in mala fede da parte di terzi ma perché hanno intenzione di usarli localmente e quindi hanno la necessità di proteggere il ramo di azienda associato a tale uso. È un investimento, non una assicurazione. Purtroppo, un’occhiata ai dati rivela una cyber-realtà incomprensibile. Aziende solo locali, registrano domini in ccTLD esotici. Aziende con un sito internet non aggiornato da anni registrano domini per ogni marchio che adottano. Aziende che si danno battaglia per domini così banali che è improbabile siano cercati da qualcuno. Un BPM dovrebbe concepire una strategia di registrazione (oppure di non registrazione) di domini sostenibile ed efficiente, senza investire risorse nella caccia alle streghe.
La domanda dovrebbe sempre essere: abbiamo effettivamente bisogno di un (altro) nome a dominio?
Le aziende non hanno in realtà la necessità di comprare domini multipli per proteggere il proprio brand né di acquistare tutte le possibili combinazioni per assicurarsi che i consumatori trovino i loro prodotti su internet.
Cosa dovrebbe fare una società se un cybersquatter registra un nome a dominio identico o simile al punto da causare confusione con un marchio ad essa appartenente? È qui che entra in gioco una appropriata pianificazione che definisce in anticipo un approccio flessibile, realistico e proporzionale ai problemi, così da essere quanto proattivi e non reattivi.
La pianificazione dovrebbe realisticamente valutare anticipatamente il grado di “tolleranza” che una società si può permettere, tolleranza che varierà a seconda di: settore di mercato, dimensioni, ambito territoriale della attività della azienda e, in ultimo risposta e aspettative dei consumatori. Pertanto, un BPM dovrebbe identificare anticipatamente gli episodi cui far seguire una reazione (ad esempio, il nome a dominio corrisponde ad un sito Internet per il commercio elettronico o ha dei contenuti discutibili) e poi decidere quali sono le reazioni più appropriate, tenendo conto delle effettive circostanze. In conclusione, concepire e/o ridefinire una strategia sostenibile di brand protection in rete è un compito impegnativo ma non impossibile. Necessita di disciplina e pragmatismo ed in un mondo in cui la verifica ultima è spesso il risultato finanziario aziendale, i BPM devono più che mai essere in grado di offrire soluzioni sostenibili. La necessità è, dopotutto, la madre delle invenzioni.

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